Settimana del Rifugiato: Messaggio dalla nostra Direttrice

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Il 4 dicembre 2000 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha deciso di ricordare il 50esimo anniversario della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato del 1951 adottando la famosa risoluzione 55/76 per celebrare la Giornata Internazionale del Rifugiato. Dal 20 giugno 2011 “il mondo commemora la forza, il coraggio e la perseveranza di milioni di rifugiati” e ogni anno questa data è caratterizzata da eventi, conferenze e testimonianze per sensibilizzare sulla situazione dei rifugiati.

Nessuno decide di diventare rifugiato e questo status solitamente è la drammatica conseguenza di un trauma legato a situazioni che mettono a rischio la vita stessa delle persone, quali conflitti, guerre, persecuzioni o violenza politica estrema. La migrazione forzata sta caratterizzando la nostra epoca e non basta più limitarsi alle celebrazioni. È arrivato il momento di agire, di fare qualcosa e di sradicare le cause che provocano diseguaglianze sociali, instabilità politica e conflitti irrisolvibili.

Dagli ultimi dati UNHCR emerge uno scenario allarmante con 65.6 milioni di persone sfollate, fra cui 22.5 milioni di rifugiati, di cui “oltre la metà hanno meno di 18 anni”. Il 2016 è stato l’anno col più alto numero di sfollati nella storia e la maggior parte dipende da vari fattori fra cui violenza diffusa, conflitti armati e disastri.

Secondo il Global Report on Internal Displacement (GRID) del 2017, alla fine del 2016 c’erano 40.3 milioni di sfollati interni (IDPs), vale a dire persone costrette ad abbandonare la propria casa che però non avevano ancora oltrepassato le frontiere nazionali. I movimenti interni sono sempre più frequenti in regioni ad alta fragilità in cui c’è una diffusa instabilità politica e in contesti precari con penuria di risorse. Bisognerebbe stare particolarmente attenti al numero di persone sfollate a causa di conflitti e disastri, perché questo consentirebbe di gestire i flussi migratori in modo più razionale. La propaganda politica solitamente lamenta che la maggior parte delle persone che abbandonano il proprio paese non sono “veri rifugiati”, ma sta di fatto che “solo” 6.9 milioni di persone sono effettivamente sfollate a causa di conflitti e guerre. Gli sfollati per cause legate a disastri sono in numero drammaticamente superiore rispetto agli sfollati fuggiti a causa di guerre e conflitti: arrivano a 24.2 milioni. Non possiamo negare una simile realtà, né sottovalutare che la maggior parte dei disastri viene provocata dal cambiamento climatico e altri eventi connessi al clima (catastrofi improvvise o graduali). Nel 2016 il 97% degli sfollamenti era dovuto a disastri ambientali e fra questi inondazioni e temporali hanno un ruolo di rilievo, come MOAS sta direttamente constatando in Bangladesh.

Secondo l’UE, il Bangladesh è “uno dei paesi più esposti a disastri e a catastrofi ambientali, fra cui cicloni, inondazioni e terremoti” che non fanno altro che peggiorare “l’impatto dei disastri localizzati” con un mix di crescita demografica incontrollata, degrado ambientale e flussi di disperati in arrivo dai paesi confinanti. Emblematico il caso della comunità musulmana e apolide dei Rohingya, ritenuta dalle Nazioni Unite la più perseguitata al mondo. C’erano già state altre ondate di esodi in massa da parte dei rifugiati Rohingya; l’ultimo esodo, di dimensioni senza precedenti, è cominciato il 25 agosto 2017 a seguito di ripetute violenze e anni di segregazione e discriminazione arbitraria. Da allora oltre 700.000 persone hanno abbandonato il Myanmar per riparare in Bangladesh, dove con MOAS abbiamo deciso di portare aiuti umanitari e assistenza medica nel tentativo di alleviare l’impatto di un così grande numero di persone disperate in arrivo dopo viaggi terribili. Il report GRID 2017, che fa riferimento alla situazione del 2016, ha sottolineato l’impatto negativo del rischio di disastri e di un’urbanizzazione rapida senza alcuna pianificazione, caratterizzata dall’aumento degli insediamenti informali e da una minore resilienza da parte della popolazione locale in Bangladesh.

Tuttavia, la situazione sul campo è disperata in molte regioni del mondo, fra cui l’Africa sub-sahariana e il Medio Oriente (dove, a fronte di un minor numero di sfollati, si registrano conflitti senza fine che spingono sempre più persone a fuggire per mettersi in salvo).

Purtroppo la correlazione fra sfollati e rifugiati rimane poco chiara e non è semplice capire quanto sia verosimile che uno sfollato diventi rifugiato. Quel che si sa è che le ricerche mettono in evidenza cause simili per gli sfollati e per i rifugiati, ma ancora non ci sono dati o prove a sufficienza per corroborare questa correlazione. Per questo, un primo passo deve necessariamente essere la creazione di modelli affidabili per verificare e condividere dati corretti, come stiamo facendo grazie alla cooperazione con XChange. Subito dopo vanno fatte delle analisi da parte di istituzioni governative e non governative in modo da avere prospettive diverse e puntare ad un migliore coordinamento fra i vari approcci. Solo così capiremo meglio le conseguenze della migrazione forzata e dello sfollamento e attueremo le migliori soluzioni.

Ma i rifugiati non sono numeri. Sono esseri umani. Sono persone.

Cosa significa essere un rifugiato oggi in un mondo globale?

Nella maggior parte dei casi, essere un rifugiato oggi vuol dire venire sradicato dal proprio paese e costretto a fuggire in condizioni pericolose. Significa essere respinto da governi nazionali che si interessano più a proteggere le frontiere che la vita umana. Significa vedersi negati diritti, dignità, cure mediche, istruzione e sviluppo personale. Sono troppi i rifugiati che devono affrontare viaggi terribili solo per andare a finire in un limbo dove è difficile soddisfare anche i bisogni di base. Ci sono madri che vedono i propri figli respinti dal resto della società, padri a cui viene negato un lavoro decente per sfamare le proprie famiglie e i bambini non possono andare a scuola né ricevere adeguata istruzione.

Cosa significa per il resto del mondo? Significa dimenticare la nostra stessa umanità e permettere abusi, oltre a sprecare preziosi talenti che potrebbero contribuire alla nostra società condivisa.

Pertanto, durante la Settimana del Rifugiato, a nome di MOAS chiedo a tutti di fare piccoli gesti e azioni per restituire dignità e alleviare il dolore di ogni essere umano costretto a lasciare la propria terra in cerca di pace e di un futuro migliore. Come ha fatto la mia famiglia nel 2013, spero che tutti si sentano in dovere di porgere una mano di aiuto ai nostri coraggiosi fratelli e sorelle che superano indicibili ostacoli solo per trovare un luogo sicuro per sé e per i propri cari.

Regina Catrambone, Co-fondatrice e Direttrice MOAS

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