Intervista alla Direttrice MOAS in occasione della Giornata Internazionale della Beneficenza

In occasione della Giornata Internazionale della Beneficenza, istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2012 e celebrata il 5 settembre di ogni anno, data in cui si ricorda la scomparsa del premio Nobel per la Pace Madre Teresa di Calcutta, intervistiamo Regina Egle Liotta Catrambone, Direttrice MOAS.

In questa intervista parleremo del libro Raccogliere il mare con un cucchiaino, una raccolta delle testimonianze dei bambini, delle donne e degli uomini che l’autrice ha incontrato e di riflessioni sull’empatia, la solidarietà e le migrazioni, nel quale viene messa in rilievo la crescente importanza del bisogno di assistenza umanitaria nel mondo.

 

Come è scattata la necessità di condividere con il pubblico le esperienze vissute in questi anni di missioni umanitarie e le posizioni personali relative alle questioni affrontate nel libro?

C’è un momento nella vita in cui ci rendiamo conto che non possiamo più fare finta di niente. Quel momento per me avvenne nel 2013, durante un confronto con mio marito Christopher e la nostra famiglia, chiedendoci cosa avremmo potuto fare per contribuire a salvare la vita delle persone migranti che provavano ad attraversare il Mediterraneo. Insieme, abbiamo messo a disposizione le nostre forze e i nostri talenti e, con il team di esperti che si sono uniti a noi, è nato MOAS. Dal 2014 al 2017 abbiamo salvato circa 40.000 bambini, donne e uomini nel Mediterraneo Centrale e nel Mar Egeo, dal 2017 in poi abbiamo curato più di 90.000 rifugiati Rohingya in fuga dal Myanmar, per poi proseguire con i corsi per la sicurezza in acqua e con la prevenzione degli incendi. In questi anni sono entrata in contatto con la disperazione, le difficoltà e la speranza delle persone più vulnerabili del mondo.

Il delicato e controverso tema della migrazione è da anni al centro del dibattito pubblico, poche sono state le iniziative volte alla vera risoluzione di questa tragedia, mentre l’empatia e la solidarietà dei primi naufragi si sono assopite.

In questo contesto ho sentito la necessità e il dovere di condividere le esperienze e le emozioni che più mi hanno toccata in questi anni per dare voce a chi non ne ha, per parlare a chi ha chiuso il proprio cuore di fronte al dramma del fenomeno migratorio e per stimolare un dialogo costruttivo all’interno delle famiglie, nelle scuole, nelle università che possa aiutare a superare gli stereotipi e le paure che ne derivano.

 

Di cosa parla il paragrafo intitolato “Uomini di vetro”?

Gli uomini di vetro sono gli uomini migranti che vivono tra noi.  A volte li rifiutiamo, nella migliore delle ipotesi restiamo indifferenti nei loro confronti, come se fossero trasparenti come tante bottiglie di vetro. E del vetro hanno anche la fragilità. Troppo spesso non li accogliamo per davvero, non siamo in grado di offrirgli un lavoro, una sistemazione, una speranza o più semplicemente un abbraccio. Non dando consistenza alla loro esistenza continueranno a restare sempre vuoti, fragili, trasparenti. In questo paragrafo parlo della speranza di Yusuf, falegname proveniente dalla Siria, e della disperazione del giovane gambiano Pateh Sabally, che non ha trovato altra soluzione che togliersi la vita nel Canal Grande di Venezia.

 

E chi sono, invece, le “Donne del mare”?

Le donne del mare sono coloro le quali hanno affrontato i loro destini come maree, contro cui si sono scagliate le sorti impietose di vite difficili, donne saccheggiate nell’intimità, impietrite dal dolore, consumate dai lutti che, nonostante tutto, restano fino all’ultimo momento messaggere di speranza e dignità. Sono donne scomode, che valicano tutte le frontiere, testimoni di disumanità. Eroi semplici, senza medaglie, costruttrici di pace. Come Fatima, vittima delle violenze sessuali perpetrate alle donne all’interno dei “lager” libici, o Rosna, una piccola Rohingya fuggita dal Myanmar al Bangladesh e curata dai medici MOAS all’interno di una delle nostre Aid Stations. E ancora la storia di Somira, una giovane Rohingya che aveva assistito a un cruento massacro di tutti gli uomini del villaggio in cui viveva e che, per il trauma psicologico, aveva sviluppato un’ulcera peptica, e quella di Jhanu, che ha perso il marito fucilato per il semplice fatto di appartenere all’etnia Rohingya e che ha deciso di fuggire affinché i suoi figli non avessero fatto quella stessa fine e le sue figlie non avessero dovuto provare il dolore delle violenze sessuali.

 

Cos’è la globalizzazione dell’indifferenza?

Nell’estate del 2013, ascoltando un discorso tenuto da Papa Francesco a Lampedusa, rimasi colpita dalla definizione “globalizzazione dell’indifferenza”. L’indifferenza fa girare la testa dall’altra parte, ci rende aridi e insensibili, ci fa perdere la nostra umanità. Ci trinceriamo dietro al nostro egoismo e ai nostri interessi restando indifferenti verso i bisogni di chi ci circonda, di chi ci sta chiedendo una mano. Questa è la globalizzazione che non mi piace, che ci rende genitori peggiori, figli peggiori, amici peggiori. Rischiamo di diventare più poveri di quei poveri che ci spaventano tanto, perché la ricchezza del sentimento di fraternità è ancora viva. Trovo assurdo, inoltre, che l’indifferenza delle persone sia soggetta alla geografia delle crisi, dove un rifugiato ucraino è accolto braccia aperte mentre non lo è uno che arriva dall’Afghanistan, dalla Siria o dall’Africa sub-sahariana.

 

Cosa può fare ciascuno di noi per non restare indifferente davanti alle tragedie che si consumano nel Mediterraneo e in tutti i confini del mondo?

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con l’istituzione della Giornata Internazionale della Beneficenza, invita gli Stati membri, le organizzazioni non governative e i singoli individui a incoraggiare la promozione di azioni di solidarietà attraverso l’educazione e attività che accrescano la presa di coscienza sul tema da parte dell’opinione pubblica. Ciascuno di noi può contribuire a far sì che l’indifferenza non abbia la meglio davanti alle tragedie che si consumano nel Mediterraneo e in tutti i confini del mondo. Possiamo farlo con le parole che lavorano nel tempo con trame invisibili che creano. Seguiranno i fatti, perché la parola, creando, porta con sé un cambiamento. Infine, l’esempio, perché anche se le nostre scelte hanno un peso minimo quando isolate, insieme costituiscono una marea potente. Possiamo combattere l’indifferenza diffondendo, fino a renderlo virale, l’istinto alla solidarietà. Opponendo così alla globalizzazione dell’indifferenza una globalizzazione della solidarietà.

 

Con l’acquisto di Raccogliere il mare con un cucchiaino contribuirete a salvare la vita di bambini, donne e uomini.

Una parte dei proventi sarà destinata alle missioni MOAS attive nel mondo. Buona lettura!

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